Mamme e lavoro: la tutela della maternità!

maternitàLa tutela della maternità

L’esistenza di una normativa unicamente creata per la tutela del lavoro femminile ed in particolare per la donna lavoratrice in caso di gravidanza, va ricercata nella situazione di inferiorità socio-economica e ridotta capacità lavorativa che contraddistingue la donna, di norma più condizionata degli uomini dalle esigenze familiari e bisognosa di una maggiore tutela sotto il piano dell’integrità psicofisica. E’ l’art.37 della costituzione a sancire il principio dell’uguaglianza di diritti tra uomini e donne sul lavoro e la direttiva secondo la quale le condizioni di lavoro debbono consentire alle donne lavoratrici l’adempimento delle essenziali funzioni familiari ad esse attribuite, garantendo un’adeguata protezione della madre e del bambino, permettendo contemporaneamente di esercitare liberamente i diritti di lavoratrice. La salvaguardia dell’essenziale funzione familiare della donna lavoratrice, viene assolta da un’adeguata normativa che tutela le lavoratrici madri, predisponendo un ampio raggio di tutele che operano dall’inizio dello stato di gravidanza (legge n. 53/2000 e D. Lgs 151/2001 come modificato dal D. Lgs 115/2003).

La legge infatti garantisce:

– la permanenza effettiva del rapporto di lavoro attraverso la conservazione del posto, per un periodo stabilito dalle norme, dalla contrattazione collettiva, dagli usi o secondo equità ed il mantenimento dei diritti derivanti dal rapporto di lavoro;

– la sicurezza economica, che prevede un trattamento economico previdenziale a carico dell’INPS (anticipato generalmente dal datore di lavoro) e trattamenti retributivi previsti dalla contrattazione collettiva in mancanza o ad integrazione del predetto trattamento a carico dell’Istituto;

– il computo dei periodi di assenza per gravidanza o puerperio ai fini dell’anzianità di servizio;

la protezione del bambino fino a tre anni.

Divieti e condizioni pregiudizievoli

L’insorgenza dello stato di gravidanza comporta per la lavoratrice madre particolari forme di tutela; è vietato, infatti, adibire al lavoro le donne (art. 16 D. Lgs. 151/2001 modificato dall’art. 2 comma 1, D.lgs.115/2003):

durante i 2 mesi che precedono la data presunta del parto, a meno che non intendano fruire dell’astensione posticipata dal lavoro a far data dal mese precedente la data presunta del parto e nei 4 mesi successivi al parto (art. 20 D.lgs. 151/2001);

– nel periodo che intercorre tra la data presunta e la data effettiva del parto;

3 mesi dopo il parto, tranne in caso di maternità posticipata (art. 20 D.lgs. 151/2001);

– durante gli ulteriori giorni non goduti prima del parto, nel caso in cui il parto avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta, considerando che detti giorni saranno aggiunti al periodo di congedo di maternità dopo il parto (art. 16, co. 1, lett. d), D. Lgs. 151/2001, sostit. dall’art. 2, co. 1, lett. a), D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 80, a decorrere dal 25 giugno 2015).

È qualificata come semplice malattia l’interruzione spontanea o terapeutica della gravidanza avvenuta antecedentemente al 180° giorno dall’inizio della gestazione (art. 19, co. 1, D.Lgs n. 151/2001; Inps, messaggio del 18 aprile 2011, n. 9042).

Viceversa, l’interruzione della gravidanza che si verifichi a decorrere dal 180° giorno (compreso) dall’inizio della gestazione è da considerare parto, con conseguente riconoscimento, previo accertamento dei requisiti di legge, del diritto al congedo di maternità ed al relativo trattamento economico (Inps, messaggio del 18 aprile 2011, n. 9042; art. 12, co. 2, D.P.R. n. 1026/1976).

Pertanto, il divieto (art. 16, D.Lgs. n. 151/2001) permane anche nei casi di interruzione spontanea o terapeutica della gravidanza avvenuta successivamente al 180° giorno dall’inizio della gestazione, in quanto circostanza equivalente al parto (Ministero del lavoro, interpello del 05 giugno 2009, n. 51).

La lavoratrice non può, infatti, essere adibita al lavoro, nel periodo di astensione obbligatoria successivo all’evento interruttivo, evento coincidente non con la morte del nascituro, bensì con l’espulsione del feto, con conseguente diritto all’indennità di maternità (Inps, circolare n. 139 del 29 luglio 2002).

Il divieto di adibizione non decade né in presenza dell’esplicita rinuncia della lavoratrice al diritto di fruire del periodo di congedo obbligatorio post partum, trattandosi di diritto indisponibile, né tantomeno in presenza dell’attestazione da parte del medico curante e/o del medico competente dell’assenza di controindicazioni alla ripresa dell’attività lavorativa.

L’inosservanza al divieto costituisce ipotesi di reato penalmente sanzionata, indipendentemente dall’accertamento in concreto delle condizioni psicofisiche della puerpera, poiché l’illecito ricorre sulla base della semplice presunzione della idoneità della condotta a ledere, o semplicemente mettere in pericolo, la salute della lavoratrice nel periodo di congedo post partum.

Lo stato effettivo di salute della donna in tale periodo può risultare indifferente al datore di lavoro, considerata l’obbligatorietà in ogni caso dell’astensione dal lavoro (Corte di Cassazione, sentenza n. 2466/2000).

La lavoratrice deve portare a conoscenza dell’Inps, con adeguata certificazione, l’evento che ha reso possibile l’esercizio dell’opzione di rientro a lavoro (interruzione di gravidanza o decesso del bambino) nonché la data in cui è avvenuta la ripresa dell’attività lavorativa, mediante dichiarazione sostitutiva di fatto notorio (art. 47, D.P.R. n. 445/2000).

Tali istruzioni sopra trovano applicazione anche riguardo alle lavoratrici iscritte alla gestione separata (Circolare Inps 27 ottobre 2011, n. 139).

 

Dr. Stefano Prosdocimo

Consulente del lavoro